giovedì 13 giugno 2013

Le fiere

Il corridoio buio scorreva rapido dietro di me. Con esso le luci del neon che ritmicamente si spostavano sopra di me, illuminandomi il viso sconvolto. L'unica colonna sonora era il rumore dei miei passi, il mio respiro affannoso mentre cercavo un nascondiglio. No, meglio, una via di fuga.

Ecco il corridoio terminare, allargarsi, e rivelare un parcheggio sotterraneo. Cercai subito delle chiavi in tasca, invano. Così decisi di forzare un auto e provare a metterla in moto. Ormai non avevo null'altro in mente se non la fuga.

D'un tratto tre figure si posero davanti a me. Erano ad una tale distanza che, data la scarsa illuminazione, non riuscivo a distinguerne altro che i contorni: una sagoma enorme e minacciosa; un'altra minuta e sfuggente; e, infine, una terza femminilmente inconfondibile. Rimasi in silenzio, non so se più per timore o per lasciare facessero loro la prima mossa, in modo da studiare la situazione.

- "Sappiamo perché fuggi", disse l'ombra femminile
- "E' inutile", disse quella mastodontica
- "Conviene che ti fermi e ci ascolti", disse l'ombra esile

Eccolo, il momento: milioni di anni di evoluzione ristretti in pochi millesimi di secondo. Fight or flight? Combattere o fuggire? L'istinto scelse la seconda: maggioranza numerica schiacciante e conoscenza zero dell'avversario.

Con un balzo l'ombra mastodontica bloccò il mio tentativo di fuga, parandosi davanti a me. Se ripenso al momento, riesco ancora a sentire il pavimento tremare sotto i miei piedi, appena toccò terra. I suoi occhi mi fissarono per qualche secondo, poi lo sentiì dire

- "Sono la sicurezza di sé stessi, quella che non avrai mai: un fisico possente che incute timore e rispetto..."

Approfittai dell'attimo di pausa e cambiai direzione di fuga. Una fiammata mi bloccò.

- "...e la capacità di lasciarmi andare, usando la mia rabbia in modo costruttivo."

Mentre diceva queste parole entrai nella prima porta che trovai e lasciai la belva fuori. Ero in un bagno, piuttosto decrepito. Le pareti erano pulite, ma così troppo da risultare quasi nauseanti. La luce era intermittente, data da una lampadina in procinto di spegnersi del tutto, che però emetteva un ronzio in tema con l'ambiente. Mi avvicinai al lavabo e mi gettai un po' d'acqua in faccia.

- "Certo, non che un po' d'acqua possa far miracoli", disse una voce vicino a me.

Mi girai di scatto, ma non c'era nessuno con me. Riguardai lo specchio: ecco l'ombra esile, dall'altra parte dello specchio:

- "Sono la libertà che non potrai mai assaporare: riesco a spostarmi da uno specchio all'altro, in modo da poter andare dove voglio con una facilità disarmante."

Caddi all'indietro, e indietreggiai in preda al panico. Non sapevo più se ciò che era davanti a me era reale o meno. Come fosse liquida, l'ombra uscì dallo specchio, e si ricompose davanti a me. Ora era meno sfuggente, anzi, sembrava di vedere la mia stessa sagoma. Guardandomi mi disse:

- "Posso modificare il mio aspetto, mescolarmi tra la gente, integrarmi facilmente, essere uno di loro. Chiunque loro siano."

La lampadina decise che era il momento adatto per spegnersi del tutto. Raggiunsi l'uscita senza voltarmi indietro, ed entrai nella prima macchina che vidi. Ero chino sotto il volante, cercando di metterla in moto alla men peggio, quando una voce femminile disse:

- "Fai sempre così: devi sempre incaponirti a capire come funziona tutto, non accetti le cose per ciò che sono."

Bloccato mi girai verso il sedile passeggero: l'ombra femminea era lì, che mi fissava, divertita. Mi sentivo come un topo che si trovasse d'improvviso un gatto davanti. Si avvicinò a me, lentamente. Senza opporre alcuna resistenza, mi lasciai mordere un labbro. Dopodiché, con la voce più suadente mai sentita, mi sussurrò all'orecchio:

- "Sono tutto ciò che desideri e che non avrai mai, se continui a scappare: la fiducia verso l'altro da sé stessi, al di fuori dalle amicizie e dagli affetti familiari. La passione. L'amore. Il desiderio."

Aprii di scatto la portiera della macchina. La sua risata mi inseguiva mentre correvo senza una meta precisa.

domenica 9 giugno 2013

La grande bellezza - Una recensione

- Pronto?
- Pronto Toni? Sono Paolo.
- We Paolo, ciao. Che dici?
- Tutto a posto. Senti un fatto, sto preparando il mio nuovo film...
- Ma che è, n'altra cosa scritta con Sciòn Penn che vuole fare l'impegnato?
- No no. Questa non contiene manco nazisti, figurati.
- Ma dove la giri?
- Qua a Roma. Prevalentemente di notte. Con molte opere d'arte.
- Ah, capito. Bello!
- ...e senti, stavo pensando a te come protagonista.
- Ah, mi fa piacere. E chi dovrei interpretare?
- Uno scrittore che ha scritto un solo romanzo, di successo, e che ora fa il giornalista.
- Ma ha qualche tratto particolare?
- Dice molte frasi fatte, però meno irritanti e brutte di quelle di Sciòn Penn.
- Eh, meno male. Ma poi nulla più?
- No vabbè. Basta che fai il Toni Servillo, va benissimo così.
- Senti, e chi altro ci sta?
- Ah, guarda, qua abbiamo fatto le cose in grande: siccome è un film su Roma, abbiamo chiamato diversi attori romani che fanno varie comparsate, più qualche "intruso". Così il pubblico si diverte a fare "Uh, guarda, ci sta coso!", e alleggerisce il peso del film.
- Ho capito, ho capito. Senti, per me si può fare.

L'espressione del sommo Toni Servillo non è direttamente correlata col giudizio sul film
(fonte immagine: http://www.labottegadihamlin.it)


A due anni di distanza da "This Must Be the Place", sulla cui pretestuosità e sulla cui genesi ha sapientemente scritto il Saggio Andrea, Sorrentino ci riprova con più sostanza e con meno forma finto-pomposa per darsi un tono impegnato. Non che il film non voglia esserlo o non lo sia, ma stavolta la somma delle parti che lo compongono è quantomeno all'altezza delle singole parti.

Il risultato è un film "alla Sorrentino", che risente sì della non-narratività del film precedente, ma che stavolta ha quantomeno un senso, un filo conduttore che conduce lo spettatore lungo il film; filo conduttore che fa il verso alla Dolce Vita - e non può non farlo - quantomeno senza mai evocarla troppo esplicitamente.

Servillo fa Servillo. Il che, considerato che è uno dei migliori - se non il miglior - attore italiano in circolazione, è un pregio. Il suo Jep Gambardella potrebbe pure non dire le frasette fatte per "farle ricordare alla gente", in quanto risulta ben più espressivo con le smorfie e le espressioni di Toni.

Rimane l'effetto shock dei primi minuti, con una specie di "Indovina chi?" giocato sugli attori che fanno una comparsata, che in pratica riempie TUTTI i primi 20-30 minuti lenti e inesorabili del film. Superato il timore di essere davanti ad un "This must be the place: Rome Edition", il film procede bene, salendo gradualmente di intensità man mano che accadono fatti nella vita di Jep.

Unico neo: sconsigliate poltrone troppo comode. I 150 minuti di girato potevano essere tagliuzzati tranquillamente entro le due ore, ma alla fin fine non sono esageratamente estenuanti.