domenica 7 febbraio 2010

Di getto - parte 3

Apriì l'armadio vicino al letto, cercando qualcosa da indossare. Lo sguardo mi cadde su un paio di abiti scuri, appoggiati poco distante da una serie di cravatte ordinate per gradazione di colore. Pensai che non era il caso di indossare quel genere di abiti: non sapevo dove ero diretto o chi avrei incontrato o cosa avrei fatto. E quello invece sembrava il genere di abito di chi invece sa esattamente cosa fare, dove andare e chi vedere, come una sorta di corazza anti-insicurezze, priva di dubbi. In un altro armadio trovai alcune paia di jeans, magliette e camicie. "Vestiti da perfetto signor 'uomo qualunque.' Questi andranno bene", pensai.

Apriì la finestra per avvertire che aria tirava fuori. Non volevo rischiare di finire assiderato o di dovermi sciogliere appena messo piede fuori da lì. Il chiarore che penetrava da fuori contrastava con le zone buie della stanza, creando un effetto penombra da film noir. "Se fossi effettivamente in un noir, dovrei indossare un abito e una cravatta. A meno che non debba interpretare una semplice comparsa" dissi tra me e me.

Vestito per ciò che mi sembrava consono all'habitat esterno, mi decisi ad uscire di casa. Non sapevo ancora la destinazione, almeno consciamente, ma sentivo che dovevo farlo. Mi avviai verso l'uscio e presi meccanicamente le chiavi che erano nel posacenere lì vicino.
Scesi le scale con calma, osservando le varie scalanature nella ringhiera di ferro nera. Tastai con le dita della mano la sua fredda presenza, e il suo tocco gelido fu una sensazione piacevole a contatto col tepore delle mie dita. Mi avvicinai al portone, e nel tempo del rumore di uno scatto metallico fui fuori da quella che finora era stata la mia prigione. La mia accogliente prigione tra sogno e realtà.

Lì per lì, l'impatto con il mondo esterno mi fece dimenticare per un attimo questo che finora era stato il mio dilemma principale, il mio tormento, mentre ero sospeso in una sorta di limbo. E mi sollevò dalla strana sensazione di sapere inconsciamente dove andare, ma di stare vagando a vuoto a livello razionale. Sensazione che la telefonata ricevuta prima non aveva affatto calmato, anzi.

La prima cosa che mi colpì una volta uscito dal palazzo fu il colore del cielo: un azzurro sorprendentemente smorto, quasi grigio. Non che mi immaginassi un cielo con un colore diverso. Probabilmente anche il cielo come me stava interrogandosi se esistesse davvero o se quel colore fosse un parto di un sogno. Mi incamminai lungo lo stretto viale che poi portava verso la strada principale. I palazzi di contorno sembrava facessero da colonne d'Ercole tra l'illusoria, rarefatta zona di prigionia dove ero stato fino a questo momento, e il resto del mondo. L'attraversamento del viale sembrava impiegare ore.

Mentre ero assorto nei miei pensieri tra un passo e l'altro, un rumore attirò la mia attenzione. Una moto si stava avvicinando lungo la strada a lato del marciapiede. Nonostante la distanza, riusciì a percepire il suo colore rosso vivo. Sembrava una punta di anomala vivacità nel rassicurante grigiore che mi circondava. Sarà l'effetto di essere lo stretto viale, ma osservando il motorino mentre mi passava di lato ebbi quasi la sensazione che il tempo percepito in quella ristretta zona fosse come rallentato: potevo notare le varie scritte sulla carrozzeria del mezzo, le pieghe dei jeans e del giaccone di pelle del guidatore. Il casco era anch'esso di colore rosso, come fosse un tutt'uno con il resto del mezzo e busto e gambe fossero solo una sorta di collegamento tra testa e ruote di quello strano essere.