martedì 18 maggio 2010

Intermezzo. O prologo.

Tempo strano, clima incerto. Troppi pensieri nella mia testa. E' come quasi se non ce ne fosse nessuno: tutti sparsi come biglie che rotolano nel buio liscio della mia mente. Al suo interno il loro rotolare, il loro vociare confuso figlio del periodo, è il sottofondo imperante delle mie giornate. In una situazione del genere, o si ha un'aria facilmente riconoscibile ed etichettabile dall'esterno, il che molto spesso equivale all'emarginazione sociale, oppure bisogna imparare sul campo ad essere bravi attori, a rappresentare "normalità" nel caos avvolgente, forse anche per convincersi di essere ancora sul palco, di essere un ingranaggio ancora funzionale al sistema, di essere ancora utili alla massa di pelle, ossa e cartilagine che ci appare allo specchio.
Alzo lo sguardo. Sono circondato da mura fatte d'acqua (cit.), come in un quadro surrealista o in un gioco di escapologia. Mi avvicino, immergo con timore prima un dito, poi la mano, e poi il braccio intero. Muovendomi in quello specchio d'acqua che ora riflette la mia immagine distorta, cercando un appiglio, provando ad afferrare qualcosa che non sia acqua. Tentativi vani. Immergo anche la spalla, per allungare di più il braccio. Sfioro una superficie, sembra liscia e fredda al tatto, più che l'acqua che mi circonda.
Riprovo su un altro muro d'acqua. E su un altro. Finché non li ho tastati tutti. Tutti col medesimo risultato: non c'è apparente via di fuga. Mi ripeto "C'è sempre una via d'uscita", ma in quel momento non sto ascoltando. Se chiudo gli occhi osservo la scena dal di fuori, allontanandomi verso l'alto come per una ripresa panoramica: sono seduto con le gambe incrociate, come in meditazione, le braccia conserte poggiate sulle gambe, la testa china su di me, a mò di inutile emblema di un potenziale inespresso.
Il gioco dei "Se..." non porterà lontano, lo so, ma in questo momento non posso fare a meno di pensare che forse, se qualcosa fosse andata diversamente, se qualcosa nel novero delle infinite possibilità diverse che avessi avuto a disposizione analizzandole a mente fredda, fosse stata alla mia portata in quel momento, forse non mi troverei qui. O forse avrei la forza di reagire con maggiore decisione. Forse non starei neppure pensando queste cose. Mi sembra di vederlo, l'altro Io in questo stesso frangente: in piedi, starebbe pensando ad un modo per uscire da qui, anzi forse l'ha già pensato e messo in pratica. E si guarderebbe indietro, come per guardare un'ultima volta alla situazione impossibile che l'ha visto protagonista, interprete ed attore principale.
Ma come dicevo è un gioco per tenere impegnata la mente, e nulla più. Vacue fantasie utili solo per alimentare ciò che mi blocca. E' un inganno continuo, come una coppia di serpenti che divora l'una la coda dell'altro. Ouroboros. E la cosa funziona particolarmente bene a quanto pare.
Mi rialzo in piedi, non so bene il perché. Forse per cercare una via di fuga, imitando la visione avuta poco fa, o forse solo per darmi l'impressione di star facendo qualcosa.
Un 'clack' metallico, un istante. Volgo lo sguardo. Il bianco mi avvolge. Dissolvenza...

martedì 4 maggio 2010

Di getto - parte 4

La prima cosa che avvertii una volta uscito da quelle consumate colonne d'Ercole di cemento fu il calore. Uscito dalla penombra, se fino a poco prima mi sentivo come sospeso in un protetto e sicuro nulla, i raggi del sole risvegliarono i miei sensi, riportandomi ad una viva realtà. Certo, l'ambiente circostante era piuttosto monotematico, fatto essenzialmente da palazzi a tinte tenui, qualche auto e apparentemente poche pigre persone che si facevano strada nella calda luce. Ma rispetto a prima, mi sembrò un piacevole miglioramento. Un altro colpo di vento mi attraversò il volto, stavolta più dolcemente. Iniziai a pensare che la calda luce forse aveva addolcito anche il vento.

Proseguii il mio cammino, immergendomi anch'io nella luce che sembrava avvolgere tutto in quel contesto. Anche le persone, era come se nuotassero nella luce, e questa in cambio addolciva i contorni, ne uniformava i movimenti, i gesti. Per un attimo, guardandomi attorno, mi sembrò di essere in una sorta di opera d'arte in movimento: tutto si muoveva armoniosamente nella luce, senza interruzioni, senza irregolarità. Un ordine talmente perfetto da sembrare surreale. E io, immerso a mia volta con il resto, contribuivo a quella "perfezione dinamica". Uno tra tanti. "Esattamente come avevo pensato prima. Buffo." pensai tra me e me.

Voltai l'angolo e lo scenario non cambiò: palazzi, auto, qualche persona, il tutto immerso in una calda, viva luce. Il movimento perfetto era ancora lì, in corso, come in un film che hai visto tante volte e del quale conosci persino le pause tra una frase e l'altra, il rumore di fondo tra un gesto e l'altro. Forse proprio per questa aura di perfezione, paradossalmente, il contesto mi sembrava sempre più reale man mano che avanzavo. Sul muro accanto a me notai alcuni manifesti strappati, parte di essi ormai penzoloni lungo il muro, in balìa del vento. Il vento caldo in quella illuminazione calda.

Dopo un pò che camminavo, ebbi la sensazione che anche l'aria fosse più rarefatta, come se il calore circostante la consumasse man mano che proseguivo. Sbattei le palpebre più velocemente, come per mettere a fuoco, evitando che quanto c'era intorno a me sfuggisse di nuovo, per rimanere aggrappato a quella realtà. Non per questo smisi di camminare, no. Solo che questa aria rarefatta aveva ammorbidito anche i miei stessi passi: il mio incedere era meno deciso, meno armonioso, meno speranzoso. Il perfetto meccanismo iniziava ad incepparsi, e al centro dell'attenzione c'ero io.

Ormai più andavo avanti nella luce, più questa si faceva sempre più forte, e allo stesso tempo le certezze che avevo accumulato fino a quel momento tornavano a dissiparsi. Avevo la sensazione di essere osservato dagli altri componenti del perfetto meccanismo, incuriositi da questa variazione nella loro opera d'arte dinamica, alcuni persino sdegnati. Immaginavo di rivolgermi a loro, come scusandomi per aver rovinato tutto attirando l'attenzione con la mia imperfezione, pregandoli di andare avanti lo stesso, come se non ci fossi. Ma in un'opera di perfezione ciò che risalta maggiormente è un difetto, più impercettibile è e più esso risalta per quanto possa essere perfetta l'opera.

Raggiunsi una zona d'ombra, vicino un portone. Sentii le mie pupille ridiventare appuntite come spilli. I miei contorni si erano fatti di nuovo nitidi, delineati. Alzai lo sguardo: il meccanismo perfetto era ancora lì. Non avevo più dubbi: sapevo cosa fare.